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Curse

Le paure si addensavano, si rincorrevano nella sua mente ad una velocità impressionante, pronte a collidere l'una con l'altra. 


Da un lato, la paura di morire, l'orrore per l'avanzare inesorabile di quella mutazione, divenuta una lenta condanna. Se normalmente non avrebbe dato peso allo spettro della morte nella sua vita, tutt'altra storia è dover combattere quella partita impari come il silenzioso spettatore di una corruzione che avanza, un centimetro di pelle alla volta. 
Senza scelte, senza vie di uscita.


Se non bastasse questa consapevolezza, il resto del mondo sembra ben disposto a rinfacciare a quello strano fenomeno da baraccone l'orrore che è capace di provocare loro. Perché, come disse a quella donna a China Town "La gente ha già abbastanza scazzi, non ha voglia di trovarsi la morte sbattuta in faccia per la strada". Un po' come certi panni sporchi, che andrebbero lavati in casa, con discrezione. 

Ed alla fine, alla fine ha ceduto anche lei. I vestiti provocanti e succinti hanno lasciato il posto a maglie ed indumenti più morigerati. "Per non attirare la polizia", si dice.

In questo quadro, il disgusto di Erik - reale o teatrale che sia - fa male come una coltellata. Una stilettata ben assestata, di chi sa come colpire, cosa dire, come fare. 

"E' solo rancore" si dice.

Dall'altro, c'è la paura del ripudio, la maledizione di dover rivivere ogni notte quella che non è altro che una blanda illusione, ma capace di attecchire profondamente nel suo animo. La famosa alternativa, la soluzione per sopravvivere: l'allontanamento del Barone dalla sua esistenza. Ogni volta come la prima, nel momento in cui lo sguardo disgustato del Barone si posa su di lei, senza nemmeno una parola, sentendo piuttosto il potere mortifero che l'accompagna quasi da tutta la vita abbandonarla, lasciandola come un guscio vuoto. 
Priva di scopo, priva di prospettive, incapace di comprendere quale sia il suo vero io, ora, senza Madame Samedi. 

"E' solo un'illusione" dice Geese

Pur sapendo che ha ragione quel terrore fa il suo dovere, aprendo una breccia nelle sue sicurezze inossidabili, sull'unica cosa nella sua vita che abbia un senso e che abbia avuto, fin ora, un valore. 

Fin ora. 

Socchiude le palpebre affondando il volto sul cuscino, sistemandosi meglio fra le braccia dell'altro Araldo in un silenzio che è d'oro, una quiete rara prima di un sonno che si prospetta destabilizzante. 

Si ritrova a lasciar correre il pensiero alla giornata passata, coccolandone il ricordo con attenzione, arrovellandosi per quel che avrebbe potuto dire, ma che non ha detto. Perché in fondo le parole sono sempre state la sua maledizione peggiore, la miccia di eventi a catena che corrono verso la catastrofe. 

Così, meglio il silenzio. 
Il silenzio di fronte ai sorrisi, agli slanci, persino di fronte agli altri silenzi dell'uomo che ha affianco. Fra di loro aleggia un non detto evidente, che si manifesta in battute che, sotto sotto, non sono così battute. In richieste di abbracci che hanno sempre una scusa e strette di mano che scompaiono veloci quando qualcuno entra nella stanza. 
Nel sesso che diventa una scusa per passare un'altra notte con l'altro, anche senza le maledizioni di mezzo. 
Nel "ti vengo a prendere in moto, dato che sei a piedi" che vorrebbe essere un "passiamo qualche ora assieme".
Nella continua gara sull'Araldo più potente, un continuo "Vado io, tu sei una mezza sega" che in realtà vuol dire "non voglio che ti accada qualcosa". 

Un silenzio tutto sommato rassicurante, che sa di contatto umano senza rischi. 

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