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Holding hands

Fuori tecnicamente è giorno, ma c'è il silenzio tipico della notte in quel piccolo tugurio dell'Hub che chiama stanza, fatto di respiri leggeri e rumori ovattati dall'esterno. Il letto su cui è riversa è piccolo: insieme a Geese ci sta stretta e questo la costringe a stare sul fianco, col capo nell'incavo della sua spalla, la guancia poggiata contro il suo petto e la sinistra mollemente intrecciata alla mano dell'uomo.

Ancora una volta priva di sonno, in uno strano stato di torpore che è un misto di emozioni, stanchezza ed alcol, i suoi occhi pallidi si fissano sull'intreccio delle loro dita. Osserva il modo naturale e lieve in cui le loro mani combaciano, trovando pace nella loro febbrile ricerca solo quando congiunte. 

Ora, prima, l'altro giorno, in ronda, con le ossa rotte. Sempre.

"Sarà che le mani sono il fulcro del nostro potere" l'ha pensato spesso e lo pensa anche ora, anche se ogni volta non ha risposta a questa domanda. Ma a dire il vero, non le importa molto, la risposta. 


Quel che importa, è che quando stringe la mano di Geese nella sua testa scende il silenzio. Una quiete dimenticata la travolge, facendo tacere ogni logorante istinto per qualche minuto. L'urgenza e la smania che la animano ogni giorno della sua vita, da quella fatidica notte in cui nel letto di un altro uomo si è svegliata col fardello del potere di Suprema, si assopiscono, finiscono in sottofondo. 

Quel che importa, è che quando stringe la sua mano non ha più paura. Paura della profezia, di non vivere abbastanza o abbastanza intensamente per il tempo che le resta, paura di quel che verrà dopo: tutto tace, lasciandola in una piacevole sensazione di sicurezza, che ha lo stesso sapore di quelle parole che si dicono spesso.

"Assieme ne verremo fuori." 



Quel che le importa, è solo stringere quella mano

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